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Gioco dunque sono: una settimana lontana dai videogiochi per ritrovarsi

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Quotidiano Il Secolo XIX | Intervista: "Gioco dunque sono" 09.11.2012

Claudio Mochi, Registered Play Therapist Supervisor, intervistato da Ilaria M. Linetti de Il Secolo XIX parla del tema "Gioco dunque sono": una settimana lontana dai videogiochi per ritrovarsi.

Il tempo libero degli italiani è una merce sempre più rara, come confermano i dati Istat di febbraio: la fascia dai 25 ai 44 anni può dedicare allo svago solo il 13% del suo tempo. E sono soprattutto i figli, spiegano gli psicologi, a farne le spese perché finiscono davanti a tv e videogiochi, senza stimoli per la loro immaginazione. È proprio per questo che esistono metodi, come la Play Therapy, a cercare di correggere questa tendenza, ottenendo risultati in casi di disturbo cognitivo, concentrazione, coordinazione.

 

«Giocare sarebbe utile anche per gli adulti» spiega Claudio Mochi dell’Associazione Play Therapy Italia «perché il sistema limbico, la parte del cervello che controlla emozioni e memoria, non è stimolata solo da terapie  verbali». Per arrivare a contatto con un’area così profonda servono questi sistemi alternativi: «Il problema è che per gli adulti è più difficile lasciarsi andare, allora è importante creare un clima di fiducia» aggiunge il terapeuta.

E quindi via alla dama, allo shangai, al Monopoli, anche se quest’ultimo è più strutturato e lascia meno spazio alla fantasia. «Lo shangai è utilissimo» aggiunge Mochi «per i problemi di coordinazione e concentrazione, e per farlo non servono grandi spiegazioni: si capisce perfettamente a qualsiasi latitudine».

Ma il punto è un altro: «La cosa più importante è che sia noi genitori a giocare con i figli: io posso farlo durante la terapia ma per i bambini la relazione che ho con loro è limitata. È da madri e padri che hanno bisogno di attenzione e affetto, ed è proprio quello che ottengono in questi momenti. Certo, gli adulti devono imparare a non correggerli su tutto anche in momenti come questo».

Quanto alle diverse forme di gioco, Mochi non ha pietà per i videogame. Spiega, anzi, che da un nuovo studio è emerso che sono correlati a dislessia e disturbi dell’apprendimento:

«Il cervello ha bisogno di immaginare, i videogiochi sono sempre percorsi guidati e stimolano solo l’emisfero sinistro, che è quello più razionale. In più, manca la relazione con gli altri, che è quello che ci consente di apprendere» dice Mochi. Invece il gioco da tavolo permette proprio di costruire legami, che rendono anche i bambini problematici più sicuri di sé e danno loro un gruppo che li sostenga.

Mochi, che dopo aver studiato negli Stati Uniti ha lavorato dieci anni in zone di crisi e d'emergenza, spiega che anche per i problemi più gravi il gioco è un toccasana: «I bambini rivivono nella loro immaginazione le situazioni più e più volte, ad esempio possono ripetere l’esperienza di un terremoto per poi ricostruire la città, o una tragedia dandole un finale più positivo. Con la fantasia poi possono trasformare qualcosa che fa loro paura in un mostro e farlo a pezzi: hanno un controllo su quello che avviene e questo non capita spesso nella loro vita. Gli adulti rivivono i drammi nella memoria, se ne hanno la possibilità al massimo ne parlano con qualcuno».

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